La seconda tappa tra le etichette di vino, la prima qui, ci porta nell’opulenta ed esibizionista Bologna che, paradossalmente ci regala una chicca di minimalismo. Non proprio in città, ma nei colli d’intorno, bolognesi appunto. A ben vedere non sarebbe poi così scontato che i colli di Bologna siano solo quelli bolognesi, almeno da un punto di vista enologico. La provincia è infatti suddivisa in due grandi sistemi collinari: i colli bolognesi a ovest e i colli di Imola a est. Questi ultimi preludono (e in parte appartengono) alla Romagna. Su dove sia il confine, poi, tra Emilia e Romagna è antica disputa non solo tra chi si definisce in un modo o nell’altro, ma anche chi si esclude dall’una o dall’altra. Diciamo storicamente il fiume Sillaro, con un paio di milioni di distinguo. Meraviglie dell’età comunale italiana travasata nei campanili odierni.
Ad ogni modo la DOC Colli di Imola arriva a lambire la città con il suo carico di Albana e Sangiovese, mentre la denominazione Colli Bolognesi – che a onor del vero è quella più naturalmente sentita propria dai cittadini felsinei – l’abbraccia calorosamente, regalando vini completamente diversi, a partire dai vitigni utilizzati, dove la fa da padrone il Pignoletto in tutte le sue sfumature.
Piccolo suggerimento editoriale, a questo punto, per chi volesse avere una panoramica sui produttori dei colli bolognesi è il ben curato Rosso Bologna – percorsi tra i vini di collina, edito recentemente da Minerva.
Proprio all’inizio della denominazione partendo da ovest, a Zola Predosa, sulla via Pietrosa, l’antica bazzanese, ma centro vinicolo fin dal medioevo, testimoniato dalla strada dei brentani, che agevolava il trasporto dei vini nelle brente, dalle valli del Lavino e del Samoggia.
Qui troviamo la cantina Manaresi, che prende il nome dal pittore e incisore novecentesco Paolo Manaresi, i cui discendenti gestiscono l’azienda agricola. Manaresi fu docente all’accademia di belle arti di Firenze e Bologna, dove succedette a Giorgio Morandi, col quale già in passato aveva collaborato.
I vini della cantina propongono etichette originali e forse coraggiose, il cui concept grafico e di immagine è stato ideato dalla visual designer israeliana Mirit Wissotzky e dell’ art director bolognese Manuel Dall’Olio, in collaborazione con i titolari. Il fil rouge è dato dal fatto che corrono tutto intorno alla bottiglia, lasciando dei vuoti, delle finestre, che mostrano il vino contenuto. La cornice è minimalista: bianca, con la firma calligrafa di Manaresi e un bollino di colore diverso per ciascun vino. Il vuoto diventa allora elemento centrale, nell’idea è che il vino diventi immagine di sé stesso, si mostri per definirsi, sia Opera incorniciata e firmata dall’artista.
La produzione va dall’autoctono Pignoletto, nelle versioni frizzante e classico, il Bologna bianco “270”, dal fatto che il vigneto ha un’esposizione a 270°, a prevalenza Sauvignon Blanc, fino ad arrivare al Merlot, al Bologna rosso – Cabernet Sauvignon in purezza – e alla Barbera. Questi ultimi due si discostano dal rigore delle prime quattro etichette, introducendo, come elemento “vuoto”, due profili: l’autoritratto in controluce di Manaresi e la silhouette di una “Flora” contemporanea. Infine va data menzione agli imballaggi, scatole da 2, 3 e 6 bottiglie, che riproducono tre diverse incisioni di Manaresi, regalando eleganza artistica anche al semplice packaging esterno.
Simone Zanin per SaporOsare