Se la felicità è fatta di piccoli momenti, Firenze ne offre parecchi, da lasciare gli occhi umidi. Ti ubriaca tra arte, suoni, amici, nuovi sapori e buon vino.
E poi c’è Marina, che con la sua empatia ti spacca in due il cuore e fa uscire tutto.
Ma partiamo dall’inizio.

Ormai è quasi ora di cena. Arrivo al mio appuntamento con un buon anticipo e una discreta fame, mentre ripasso mentalmente il programma delle mie giornate: cena con uno sconosciuto (adoro gli sconosciuti) che mi ospiterà sul suo divano, mostra a palazzo Strozzi l’indomani e domenica due degustazioni a Vinoè.
Sarà che mi piacciono le sorprese e abbandono volentieri il controllo necessario nella settimana lavorativa, sarà che l’aria è frizzante e la città un museo a cielo aperto, ma mi sento già una bambina felice: io, la piccola Chiara.

Squilla il telefono e dall’altro capo una voce calda con accento fiorentino mi da il benvenuto, invitandomi ad aspettare l’11 per vederci un po’ prima. Uno dei miei numeri preferiti, ma non arriva mai, c’è sciopero.

Al posto dell’11 arriva un vecchio pandino verde con la storia e l’impeto di una rock star:
un bel sorriso mi apre la portiera dell’auto e da quell’istante la piccola Chiara incontra la più bella ed emozionante Firenze che potesse mai immaginare.

Dopo poche mezz’ore sfrecciamo in motorino, da una delle colline sopra Firenze, in direzione cena. Il panorama, inutile dirlo, è strepitoso: sembra quasi che la città sia rimasta sospesa nel suo stesso splendore. La cupola del Brunelleschi l’abbraccia e la culla, la sensazione è indescrivibilmente lieve e tiepida. Firenze mi stava aspettando e io mi sento a casa, benvenuta come in ogni parte del mondo.

Le ore della sera sfuggono veloci. Filetto, vino, patate deliziose e tante chiacchiere con un vecchio compagno di viaggio, ritrovato dopo qualche vita. È la spiegazione più ovvia che mi viene in mente, perché questa persona e questa città mi sembra di conoscerle da sempre.

Di Marina Abramovic’ invece so davvero poco. Cerco di frugare in qualche polveroso cassetto della mia memoria, per ritrovare qualcosa sulle avanguardie della body art e sui performer che mi venivano illustrati negli anni dell’Isia: Orlane, Gina Pane, Franco B., eppure di Marina nulla di nulla. Qualche video e articolo in giro per il web negli ultimi anni, ok, ma nulla di strutturato. Eppure la mostra mi è stata segnalata da qualcuno che mi ha conosciuta bene: “Non puoi perdetela” mi ha detto, “ti innamorerai”.

La fila non è particolarmente lunga, ma fanno entrare a piccoli gruppi e scorre lenta.
“The Cleaner” è una retrospettiva realizzata con la stessa artista, la prima su di una donna a Palazzo Strozzi. Mi perdo osservando il suo enorme volto sul manifesto bianco e inizio a sentire lo stomaco che si stringe: mi colpiscono i suoi occhi. Ha il dito poggiato su una fiamma, così da sollecitare i recettori del dolore e divenire un contenitore di emozioni che non esplodono.

I suoi occhi sono gonfi di lacrime e pieni di vene ma allo stesso tempo perfetti, non ha un capello fuori posto, non una guancia rigata, ha un’immagine asettica ed ascetica. Sei costretto a osservare i suoi occhi e le emozioni sono così potenti che il muro alle sue spalle si crepa, così come lo è lei, all’interno.

Marina coinvolge il pubblico che diventa esso stesso parte della sua performance.
Quello che accade è un momento unico ed irripetibile, come la vita stessa.

La sua arte inizialmente proviene dall’elaborazione del suo background familiare, sociale e politico, ma negli anni la sua ricerca diventa sempre più fine e sottile.
Mi ha turbata profondamente, non per il suo vissuto ma per la sua consapevolezza e la sua ricerca interiore. Con la stessa potenza dell’immagine all’ingresso, Marina Abramovic’ mette a nudo il suo pubblico, portando l’animo umano all’essenza di se stesso.

La performance è solo l’atto finale ed artistico di un percorso di consapevolezza a cui arriva attraverso la meditazione tibetana, la cristalloterapia e atti sciamanici di catarsi.
Così Marina, prima da sola e poi con il compagno Ulay, demolisce le strutture in cui l’animo umano si imprigiona.

Esco da palazzo Strozzi e il mio respiro torna a regolarizzarsi, ma ho ancora bisogno di qualche ora di solitudine per sedare le emozioni affiorate e immergermi di nuovo nelle delizie artistiche e culinarie con il mio prezioso Cicerone.

È ora di cena e dopo il delizioso pranzo a base di Lampredotto di Nerbone, il mio strepitoso compagno di viaggio mi porta alla ricerca del Peposo.
Non vi ho detto che è anche una preparatissima guida che mi riempie di aneddoti inimmaginabili sulla vita di artisti come Michelangelo e Leonardo, racconti che mi portano indietro nel tempo, a un epoca spesso troppo nascosta dentro i libri di storia. Mi racconta cose che riesco a vedere e rievocare.

A Santa Croce ci perdiamo tra le vinerie e le osterie, in una piccola anticipazione della giornata successiva di degustazione.

Il mattino dopo, salutarsi davanti alla splendida Stazione Leopolda è quasi doloroso, ma sono troppo grata e piena di bellissime emozioni, per accorgermene e rammaricarmi.

Entrare a Vinoè, la kermesse organizzata da Fisar, è all’altezza delle emozioni già vissute nei due giorni precedenti. L’atmosfera è quasi sacrale nell’eleganza della location, eppure accanto ad un bicchiere di vino ti senti sempre tra spiriti affini.

Incontro tra molti, tre o quattro produttori che mi conquistano per qualità, passione e simpatia, tra cui Col Sandago, azienda che oltre ad un ottimo prodotto, mantiene un occhio attento sull’arte, Olinas, Kobler.

Ma la sorpresa più inaspettata è stato entrare nel mondo del Sakè di Akitora, azienda artigianale di una bevanda dalle mille sfumature e dai sapori colorati, prodotta in un numero limitato di bottiglie l’anno.
I tre protagonisti nella produzione del Sakè sono il Riso, il Koji (una muffa nobile che partecipa alla trasformazione del riso in glucosio) e il Lievito (ovviamente specifico per il procedimento estremamente delicato).
Abbiamo degustato Junmai Ginjo, Junmai e Junmai Yamadanishiki. Ognuno di questi vini di riso è un mondo di piacere abbinabile anche alla cucina occidentale.

Ma va ben ricordato che da tradizione ogni momento il cui il Sakè viene bevuto, deve essere un momento di gioia condivisa. Non è un vino fatto per essere conservato, va goduto all’istante.

Si impara dalla vita, come dall’arte, come da un buon vino.
Ho trovato nel Sakè di Akitora e in Marina Abramovic’ la stessa essenziale necessità di presenza del momento. E lo stesso fine: la gioia. La gioia attraverso l’amore e l’attenzione.

Altre sono le cose che invece non dovete farvi scappare. Firenze non aspetta  altro che vi perdiate nelle sue vie, chissà che magari incontriate un’anima affine.

Chiara Allegra Tracquilio per SaporOsare

 


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