Lo scorso 4 agosto è stata celebrata in Italia e oltreoceano la Notte bianca del cibo, e la data ha coinciso proprio con la nascita del padre della cucina italiana: Pellegrino Artusi, autore di “L’arte di mangiar bene”. Scopriamone insieme i segreti.

La Storia riporta molti casi in cui il parere di un esperto, per fortuna, rimase inascoltato. Elvis, sulla base di un autorevole parere del manager Jim Denny, avrebbe dovuto tornare a guidare il camion, piuttosto che cantare: sarebbe stato meglio per tutti. Per Chaplin, il cinema non avrebbe preso piede: inutile investirci. Per William Blake, Tiziano avrebbe dovuto essere citato nella categoria degli imbianchini. Per il Professor Francesco Trevisan, invitato a una degustazione che mirava a lanciare il neonato libro di Pellegrino Artusi, “L’arte di mangiar bene” sarebbe stato un utile fermacarte sulla scrivania di quel bislacco del suo autore: “Questo è un libro che avrà poco esito”, sentenziò, beninteso a stomaco pieno. D’altronde, come dargli torto, quando già il povero Artusi, che si era voluto imbrancare – lui, commerciante, contabile, banchiere – nell’impresa di scrivere un libro se n’era vista rifiutare la pubblicazione a tutte le porte alle quali aveva, pur bene introdotto, voluto bussare? Non c’era verso, sicuramente. E così, a vent’anni dal momento in cui era entrato per così dire in pensione (ante litteram) dal lavoro attivo grazie al gruzzolo accumulato in precedenza, dopo che per quasi vent’anni aveva raccolto, sperimentato, riscritto e commentato ricette, l’Artusi, messa una volta di più mano al portafoglio, se l’era pubblicato, quel suo libro.

La prima edizione uscì così con la dicitura: autopubblicato, da una tipografia fiorentina; “L’arte della Stampa”, di Salvadore Landi. Quattrocentosettantacinque ricette; il signor Pellegrino tornava a casa da una gita con amici, da una visita, dal ristorante e diceva, adesso questa ricetta bisogna che la proviamo. Per “noi” intendeva il suo microcosmo personale: ovvero, lui stesso, la sua governante Marietta Sabatini, della provincia di Pistoia, e il cuoco che si era portato da Forlimpopoli quando l’aveva dovuta abbandonare, dopo la tragedia che aveva visto protagonista la sua famiglia.

La Romagna natale, infatti, si era dimostrata poco salubre per gli Artusi; come tanti, erano caduti vittime della rapacità del famigerato brigante Stefano Pelloni, passato poi alle cronache incongruamente come una figura romantica col meglio noto nomignolo de “Il Passatore”; le cronache dell’epoca, lungi dall’ammantarlo di un’aura di misterioso fascino, avevano ben presente di quali violenze e soprusi fossero capaci, lui e quelli della sua banda. Che si erano specializzati, per così dire, nel prendere letteralmente in ostaggio interi paesini: grazie alla fitta rete di informatori conniventi, di basisti e di spie prezzolate facevano in modo di prendere nota di quali fossero i personaggi più ricchi e influenti delle località prese a obiettivo. Poi, scelta l’occasione giusta, li prendevano in ostaggio in un qualche luogo preventivato e li spennavano per bene, sotto l’ovvia minaccia – che non temevano di attuare – di violenza e di omicidio; senza risparmiare nessuno, vecchi, donne o bambini, mettendo in opera tutto il possibile campionario di violenze, senza che nessuno riuscisse a fermarli. Torture, pestaggi, stupri, niente era troppo per questo bel tipo di eroe romantico, che nel marzo 1851 finalmente, grazie ad una spiata, incontrò la scarica di fucilate che mise fine alla sua discutibile carriera.

Ma per la famiglia Artusi, oramai, era troppo tardi. Poco meno di due mesi prima il Passatore aveva firmato il suo colpo più celebre, decretando, oltre al suo destino, anche quello di Pellegrino Artusi. Nella notte del 25 gennaio dello stesso anno, infatti, i briganti entrarono nel Teatro Comunale durante una rappresentazione cui erano presenti tutte le personalità del paese, e li tennero in ostaggio fino a quando non ebbero finito di farsi consegnare tutto il possibile. Gli Artusi non erano in sala; furono in compenso raggiunti nella loro casa, in cui i delinquenti penetrarono facendosi aprire dai presenti, servendosi di un amico di famiglia. Seguì l’immaginabile copione solito di sevizie e ruberie; poi i briganti si diedero allegramente allo stupro delle donne presenti. Due sorelle di Artusi (ne aveva ben nove), Rosa e Maria Franca, si nascosero tutta notte in un camino per evitare l’infamia. La terza, Gertrude, non fu così fortunata, o veloce, e fu costretta a subire violenze per ore fino a quando riuscì a fuggire sui tetti, dai quali fu recuperata il giorno dopo in un tale stato di shock che dovette essere ricoverata, ormai impazzita per sempre, nel manicomio di Pesaro, dove morì a soli 49 anni. Anche Pellegrino Artusi ebbe dall’accaduto una impressione così soverchiante che non riuscì più a vivere nella propria città, e si trasferì a Firenze: un posto in cui nessuno lo conosceva e dove pensava simili cose non potessero accadere. Il Passatore, della cui banda quella sera, come testimoniò in seguito Pellegrino, faceva parte anche il sacerdote don Pietro Valgimigli, fu in seguito a questi fatti oggetto di una caccia spietata da parte delle Guardie Pontificie fino al giorno fatale, che non sarebbe tardato.

Nel frattempo, la famiglia Artusi si era trasferita in massa a Firenze dandosi al commercio della seta, mentre Pellegrino cercava altre strade in campo commerciale per poi, dopo il 1861 – anno in cui morì il padre – si dedicò, oltre all’attività di scambio, anche al maritare le sorelle, prendendo in mano le redini della famiglia così bistrattata. Poi, terminata questa impresa nel 1870, si ritirò dal commercio e affittò un villino in Piazza d’Azeglio, con l’idea di passarci la maturità e la vecchiaia. Non si era sposato: non ne aveva avuto il tempo, dovendo badare agli affari di famiglia, e ormai l’indole raggiunta con l’età non gli consentiva progetti in materia. A fargli compagnia, ci avrebbero pensato i tanti amici, che era uomo stimato e cordiale; in casa, invece, si sarebbero presi cura di lui la governante, e il cuoco. E basta.

Così, Pellegrino ogni volta che tornava a casa prendeva e proponeva a Marietta e a Francesco Ruffilli: questa ricetta è interessante, questa è importante, di questa mi hanno molto bene parlato. Questo minestrone – celeberrimo il caso – mi ha fatto male presso quella locanda; vediamo se possiamo farlo buono e che faccia anche bene. Da tutte le regioni italiane arrivano le ricette: anche se, giocoforza, la maggior parte saranno toscane e romagnole, o al massimo del Centro e Nord d’Italia, che molto più in là né Pellegrino si spingeva, né i suoi amici risiedevano. E in ogni caso le mani ai fornelli, quelle erano. Ogni ricetta discussa, ricreata, assaggiata, ridiscussa, scritta e commentata; secondo quel volere scientifico, positivista, razionalista degno dei tempi moderni, che era degno dell’afflato di modernità che toccava ormai anche l’Italia.

Una Italia che finalmente veniva tutta riunita in cucina, in un libro, precedendo così la riunificazione politica che sarebbe giunta di lì a poco; un libro sul quale nessuno aveva voluto investire – dopotutto, chi mai avrebbe comprato un libro di ricette? Che diamine, un po’ di serietà! Per cui, serietà per serietà; morti i genitori, senza donne importanti nella sua vita di inveterato scapolone, senza figli, Pellegrino Artusi dedicò la prima edizione ai suoi due gatti: Biancani e Sibillone, “I miei migliori amici dalla candida pelle”.

Da 475 a 790 ricette, Pellegrino Artusi curò personalmente fino alla quindicesima edizione che in seguito non fu più aggiornata, prima di dover lasciare il suo lavoro più amato alle mani del Creatore. Morì il 30 marzo 1911, evitando il dispiacere di vedere la Grande Guerra e lasciando in eredità i diritti del suo meraviglioso, stupefacente libro ai suoi fedeli collaboratori, governante e cuoco. Oggi, oltre centotrenta edizioni più tardi, tradotto in moltissime lingue, “La scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene” rimane un punto di riferimento inevitabile per chiunque voglia anche solo parlare di cibo; caposaldo della formazione culturale e professionale di innumerevoli lavoratori del settore, di appassionati, di curiosi, scritto in maniera così chiara, diretta, precisa, aperta che ad oltre un secolo dalla sua pubblicazione la sola idea che, senza la testardaggine e la passione di Pellegrino Artusi, queste pagine non sarebbero mai nate ci fa non sappiamo bene se più inorridire o ridere.

Carlo Vanni per SaporOsare


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